Corriere.it «Come sono finita sul marciapiede (e come mi sono salvata)»: la storia di Rachel Moran, ex prostituta

“Come sei finita sul marciapiede?». E’ la prima domanda (ed è sempre la stessa) che la gente rivolge alle donne prostitute o ex prostitute. Succede anche a Rachel Moran, 41enne irlandese autrice del libro «Stupro a pagamento (la verità sulla prostituzione)», pubblicato due anni fa all’estero e arrivato ora in Italia, edito dalla casa editrice Round Robin. Moran è una giornalista affermata, una scrittrice, un’attivista per i diritti delle donne che subiscono la tratta. E’ anche un’ex prostituta: a 15 anni è finita sul marciapiede ed è riuscita ad uscirne solo a 22, grazie all’aiuto di una parente. Questi sette anni sono il cuore del libro, che è sia un’autobiografia che un saggio sulla prostituzione. «L’ho scritto per due ragioni – racconta al Corriere della Sera – volevo raccontare la verità ma anche rispondere ai tanti luoghi comuni che la società ha su questo tema». Non è stato semplice, lo scrive nel libro e lo conferma a voce: per concluderlo ci ha messo dieci anni.
La proposta

Non è facile, per cominciare, rispondere alla domanda iniziale. Sulla strada è finita perché il suo ragazzo dell’epoca glielo ha proposto e lei ha accettato. Ma c’è una catena di eventi, cominciata molto prima, che l’ha portata a dire sì. E’ cominciata alla sua nascita: Moran è nata e cresciuta in una famiglia in cui entrambi i genitori avevano problemi psichiatrici (la mamma era considerata schizofrenica, il papà soffriva di attacchi maniacodepressivi). Sia lei che i suoi fratelli e sorelle si sono sempre considerati al di fuori della sfera della normalità, in un certo senso separati dal mondo reale. Dopo il suicidio di suo padre, la giovane (all’epoca 14enne) iniziò a litigare con la madre che la sbattè fuori di casa. Iniziò così a girare tra ostelli e centri per i senzatetto. Ma anche fra panchine, parchi, cespugli, bagni dei locali: ovunque potesse dormire, anche solo per poche decine di minuti.

Sul marciapiede

Così arriviamo a quel «sì»: era l’agosto del 1991, Moran aveva 15 anni e dormiva con il suo ragazzo (con il quale stava insieme da meno di una settimana: 21 anni, senzatetto anche lui) nella casa di uno degli amici di lui a pochi minuti di strada da Benburb Street, una via di Dublino dove esercitavano le prostitute. Lui le ha proposto di iniziare a prostituirsi e lei, come scrive nel libro, pensò di essere «abbastanza forte da riuscirci: metterebbe fine al girovagare, al non sapere mai dove coricarmi, alla bramosia costante per quel poco di cibo o per una sigaretta». Nel giro di un’ora era già sul marciapiede, di ritorno dal suo primo cliente.

Gli stereotipi da abbattere

E’ stata obbligata a farlo? No. Però – come scrive lei stessa – il concetto di «adulti consenzienti» (uno degli stereotipi che molti ancora hanno sul tema della prostituzione) è un controsenso: «Non è possibile dare il primo consenso a uno stile di vita che non comprendi. In secondo luogo, molto delle donne prostituite non sono adulte». Capitolo dopo capitolo, Moran ne smantella molti altri: il mito della prostituta d’alto bordo che sarebbe più simile ad una cortigiana che a una prostituta di strada, quello della «puttana felice» che ha scelto lei stessa di diventarlo, quello del piacere sessuale (che si prova sì, ammette, ma «una volta ogni morte di papa»), quello del potere che la prostituta riuscirebbe a esercitare sui suoi clienti. Cliché che, se ancora esistono, è perché «purtroppo siamo inclini a credere a cose che sappiamo benissimo non essere vere. Sono sicura che gli stessi attivisti che si battono a favore di quelle che definiscono «lavoratrici del sesso» non vorrebbero vedere le loro compagne, madri o figlie nei bordelli», argomenta Moran oggi. E ribadisce: «Per me dire che la prostituzione è liberazione è un controsenso: è invece, ricordiamolo, una forma di sfruttamento».

Il rischio della «glamourizzazione»

La scrittrice, nel suo libro, non nasconde nulla. Racconta di quando, alle quattro del mattina, era ancora sulla strada e il suo corpo veniva usato ogni notte da un numero compreso tra i sei e i dodici uomini. Di quando si è trovata oggetto di foto pornografiche, di quando si è spostata dalla strada ai bordelli a quando è finita a fare la escort. Della sua esperienza da spogliarellista: di come non sia «una specie di divertimento innocuo» perché «non è né divertente né innocuo quando il cuore ti batte all’impazzata in mezzo a una folla di 50 o 60 uomini ubriachi, che sbraitano tutti volgarità e oscenità, mentre tu sei lì a sfilarti di dosso gli unici strati esistenti che ti separano da loro – i tuoi vestiti». Il problema, sostiene nel libro e ribadisce al Corriere della Sera, è proprio questo: la tentazione di dare una patina elegante e raffinata a ciò che ha a che fare con la prostituzione. «Letteratura e cinema spesso presentano la prostituzione come un fenomeno glamour. Un esempio? Il film «Pretty Woman». E’ una tendenza pericolosa in un mondo in cui, invece, dovremmo combattere per sradicare questo mercato, anche e soprattutto dal punto di vista legislativo».

Le leggi per combattere la prostituzione

Per lei il modello giusto è quello nordico: votato in Svezia nel 1999 e adottato negli anni successivi anche da altri Paesi (dalla Francia all’Irlanda passando per il Canada), punisce i clienti e non le prostitute. L’unico modo, secondo lei, di diminuire la domanda e quindi di arginare e abbattere il fenomeno. Lo sostiene ricordando la sua stessa esperienza e la Legge contro la violenza sessuale del 1993. Che invece le ha cambiato la vita in peggio: la normativa criminalizzò l’adescamento e cioè, come scrive, «solo una delle due parti in causa nella prostituzione: le passeggiatrici. Colpiva le prostitute di strada e soltanto loro. Questo ebbe l’ovvia (e penso voluta) conseguenza di condurre la prostituzione nei luoghi chiusi». Per combattere e sradicare il fenomeno, però, colpire la domanda (anziché l’offerta) non basta. Secondo Moran la cosa più importante da fare nella lotta contro la prostituzione «è nominarla. E quindi educare i giovani, sia i maschi che le femmine, a capire cos’è e a riconoscerla senza banalizzarla: è un fenomeno di oppressione e devono esserne ben consapevoli». Poi, più in generale, occorre trovare promuovere politiche che smantellino «gli stereotipi di genere, a cominciare da quello per cui è normale che un uomo domini una donna». Che si tratti di un pappone, di uno schiavo, ma anche di un ragazzo che dopo nemmeno una settimana di relazione ti propone di accompagnarti sul marciapiede.

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