Noi vendute per sesso dalla Nigeria all’Italia – L’espresso

Quando era sul gommone che l’avrebbe portata in Italia, Blessing pensava a un’antica fiaba che le aveva raccontato sua  nonna materna qualche anno prima: una divinità del mare che aveva il potere di inghiottire per sempre le anime oppure salvarle. Blessing pensava a questo guardando il mare, appena partita da Zawhia, in Libia. La notte prima un uomo l’aveva svegliata con un calcio mentre dormiva a terra sul cemento di uno dei tanti magazzini nascosti della costa occidentale del Paese, dove i migranti aspettano il proprio turno di partire e le aveva detto che il tempo era buono, il mare era calmo, ed era finalmente arrivato il momento di raggiungere l’Europa.

Il mare di Zawhia era un mostro color antracite, grande più della sua immaginazione, dell’immaginazione di una ragazzina di sedici anni che ha lasciato il suo Paese, da sola per costruire un futuro decente. Blessing sentiva il rumore delle onde nel gommone, le vedeva alzarsi di fronte a sé, schiacciata tra decine di altri uomini, donne e bambini, malati, affamati, disperati come lei.

L’acqua era un muro altissimo e rumoroso, ma Blessing non aveva paura. «Dall’altra parte del mare, al di là della divinità che uccide o perdona, c’è l’Italia», pensava. Pensava ci fosse un lavoro ad attenderla, un futuro possibile.
Invece ad aspettarla c’era la strada. Gli abusi. La prostituzione.

Blessing è nata in Nigeria nel 2001, in un villaggio dell’Imo State, una delle zone più povere del paese. Quando suo padre è morto, lei e i suoi sette tra fratelli e sorelle hanno smesso di andare a scuola perché in casa nessuno portava più soldi. Qualcuno di loro ha cominciato a vendere acqua e pane ai bordi delle strade, qualcun altro a mendicare. Suo fratello più grande lavorava come aiuto meccanico per provvedere alla madre. Blessing, invece ,avrebbe solo voluto andare a scuola. Lo scorso anno una donna l’ha avvicinata, nel mercato del suo villaggio. «So che la tua famiglia ha bisogno di aiuto, che vi servono soldi», le ha detto. «Mia sorella vive in Europa e può aiutarti, c’è tanto bisogno di ragazze disposte a lavorare, fidati di me».

Maryam, 17 anni, arrivata da Benin City due anni fa

Blessing era confusa ed entusiasta. Quella donna aveva parlato anche con una sua amica, Gift, quindicenne: le aveva detto che in Europa molte famiglie avevano bisogno di cuoche ed entrambe le ragazzine amavano cucinare. Quella donna le aveva detto di non dire niente alla sua famiglia, perché avrebbero cercato di farla desistere a causa del viaggio, lungo e faticoso. «Quella donna ha detto a me e Gift di seguire un suo amico, che ci avrebbe accompagnato e protetto nel viaggio dalla Nigeria alla Libia. E così, una notte abbiamo preso uno zaino e siamo partite».

L’uomo che ha scortato Blessing e Gift è uno dei “connection men”, figura chiave della tratta: sono gli emissari delle organizzazioni criminali che prendono in carico le nigeriane, minorenni, fino al loro arrivo in Libia, spesso fino all’arrivo in Italia. Garantiscono loro il viaggio gratis, e istruiscono le ragazze nei minimi dettagli, dicendo di dichiarare – una volta in Italia – di essere maggiorenni, per evitare di finire nei centri protetti. Danno loro un numero di telefono da chiamare una volta arrivate nel centro. Il numero è dell’ultimo anello della catena, quello che le porterà fisicamente dalla “madam”, la nigeriana adulta che le costringerà, ricattandole, alla strada.

«Quando sono arrivata dalla mia “madam”, Friday, la prima cosa che mi ha detto è stata che avrei dovuto cominciare a lavorare subito per ripagare il debito del viaggio e solo in quel momento ho scoperto che il debito era di 40 mila euro. Ero spaventata, ma pronta a lavorare dal giorno successivo. Invece la “madam” mi ha dato una busta, dentro c’erano dei pantaloni cortissimi e un reggiseno. E mi ha detto: questo è il tuo lavoro. Vai in strada dalle nove di sera e torni la mattina dopo portandomi i soldi. Mi devi ripagare anche gli abiti che ti ho comprato e l’affitto del letto dove ti farò dormire.». Blessing non ha capito quale fosse il suo destino, finché la “madam” non l’ha schiaffeggiata, dicendole che da quel momento lei sarebbe diventata una prostituta. Così Blessing, a sedici anni, si è ritrovata seminuda, in una strada a ridosso di un ponte, nella provincia di Savona. «Non riuscivo a essere arrabbiata, ero solo piena di vergogna. Ero mezza nuda, in strada, sola, e avevo paura. La prima notte mi sono nascosta dietro i cespugli e piangevo. Piangevo, volevo solo chiamare la mia mamma e andare via, tornare a casa. Non volevo che nessun uomo mi vedesse». Invece Blessing è stata picchiata e costretta a vendersi. Ha perso la sua innocenza e la sua verginità tra i cespugli e il cemento di un ponte in disuso. «A volte non passava nessuno, e io ringraziavo Dio. A volte c’erano anche sei uomini in una giornata. Molti di loro erano anziani. Io non sapevo l’italiano, la “madam” mi aveva solo insegnato a dire «venti euro» e «trenta euro» in base a quello che quegli uomini mi chiedevano. Così facevo quello che volevano, poi porgevo loro la mano per chiedere i soldi e tornavo in strada».

Blessing ha venduto il suo corpo per tre mesi, ogni giorno sotto quel ponte, fino a che Princess, nigeriana anche lei, anche lei vittima di tratta tanti anni fa e oggi operatrice di una unità di strada, l’ha avvicinata in strada dicendole solo: «So cosa stai vivendo, perché l’ho vissuto anche io». E così – guadagnando la sua fiducia – l’ha salvata.

Alberto Mossino, fondatore insieme a Princess di Piam Onlus, una ong piemontese che si occupa di assistere ragazze vittime di tratta, sostiene che l’aumento delle ragazzine nigeriane è indicativo del potere crescente dei trafficanti di donne e della fitta rete di interessi e connivenze tra la Nigeria, la Libia e l’Italia. Le inchieste della magistratura e le operazioni delle forze dell’ordine lo confermano: ultima, quella che il 7 giugno scorso ha sgominato una banda organizzata di trafficanti a Cagliari, Pescara, Perugia, Pistoia e Reggio Calabria. «Negli ultimi due anni», dice Mossino, «ci siamo resi conto che molte ragazzine raggiungono l’Europa in un lasso di tempo relativamente breve, spesso raccontano di un viaggio durato un mese, un mese e mezzo per arrivare sulle coste italiane dal più profondo villaggio della Nigeria. Questo dimostra che la mafia che controlla il traffico di bambine e ragazze ha mezzi e potere per corrompere le tribù e le milizie che incontra lungo il viaggio, per corrompere tutti quelli che controllano frontiere e confini. Il giro di denaro che ruota intorno a queste bambine è inimmaginabile. E i trafficanti sanno di poter sfruttare da un lato la povertà nigeriana e dall’altro il vuoto di potere libico».

Il numero delle donne nigeriane arrivate in Italia dalla Libia è quasi raddoppiato lo scorso anno. Secondo l’Iom (International Organisation for Migration) l’80 per cento delle 11.009 donne nigeriane registrate lo scorso anno in Italia è vittima di tratta. Nel 2015 erano 5.600. Nel 2014 1,450. L’Iom stima che il 71 per cento delle persone che intraprendono la rotta per il Mediterraneo, durante il viaggio, diventi vittima di tratta.

«Quello che le nostre indagini dimostrano», dice Simona Moscarelli, esperta di anti-tratta dell’Iom, «è che le reti di traffico di esseri umani stiano diventando brutali ed efficienti a valorizzare e trarre profitto dalla vulnerabilità dei migranti».

Anche Happiness è una di loro. Anche lei ha sedici anni, e viene da Benin City. Per lei lo stesso viaggio, uguale a quello di tutte le altre ragazze: Auchi, Agadez, Sabha, poi la Libia. «Mia sorella mi aveva fatto parlare con una donna in Germania che mi aveva promesso un posto come parrucchiera nel suo negozio», racconta la ragazza. Ma il giorno della partenza Happiness ha visto parlare sua sorella maggiore con l’uomo che l’avrebbe accompagnata in Libia. Ricorda il loro tono, teso. Ricorda di esserne stata spaventata. Happiness e il suo “connection man” hanno impiegato quasi una settimana per raggiungere Sabha, nel sud della Libia. Lui guidava un minivan che, insieme a lei, trasportava altre sette ragazzine, anche loro minorenni. Happiness era stanca. «Voglio tornare a casa», gli ha detto durante il viaggio. «Impossibile. Tua sorella ti ha venduta, ora imparerai a lavorare qui in Libia».

Happiness, 16 anni, viene da Benin City attirata dal miraggio di un lavoro come parrucchiera

Così è cominciato l’inferno di Happiness, costretta a quindici anni a prostituirsi in una “connection house” alla periferia di Tripoli. «Quando sono arrivata c’erano circa venti, trenta ragazze. Una donna più adulta – avrà avuto trentacinque anni – ci ha spiegato che lì avremmo dovuto fare pratica prima di arrivare in Italia. Che avremmo dovuto imparare a lavorare».

Happiness ha dormito su un materasso buttato a terra per mesi, senza mai poter uscire da quella casa. Abusata ogni giorno, talvolta stuprata da gruppi di uomini. Nessuno di loro le ha mai dato dei soldi. Il corpo venduto di Happiness nella connection house era il prezzo da pagare alla mafia libica, coinvolta nel traffico di migliaia di ragazzine. «C’erano vermi dappertutto, non c’era acqua pulita, pian piano ho cominciato ad avere piaghe sul corpo e non sapevo come curarmi e quegli uomini continuavano a venire ogni giorno, a violentarmi ogni giorno». Di quelle piaghe Happiness porta ancora i segni sulle braccia e sulle mani, che muove nervosamente mentre mette in fila i ricordi. Quando nella connection house di Tripoli sono arrivate altre ragazze dalla Nigeria,
Happiness è stata accompagnata a Garabulli, in attesa del gommone che l’avrebbe portata in Italia. Anche qui, ad attenderla, ci sarebbero state prostituzione e violenza. Ma una volta in Sicilia, Happiness ha strappato il foglio con il numero di telefono che avrebbe dovuto chiamare per raggiungere la sua “madam” e ha chiesto aiuto. Oggi vive in una casa protetta della bassa padana, ha colorato i suoi capelli raccogliendoli in larghe trecce. Talvolta pensa alla sua famiglia, e piange. «La sola volta che ho provato a telefonare a mia sorella, per dirle cosa avevo subito, mi ha urlato contro che dovevo fare come mi dicevano, altrimenti le avrebbero chiesto indietro i soldi.». Happiness non ha più telefonato.

Oggi divide la stanza con Maryam, appena diciassettenne, anche lei è arrivata da Benin City, due anni fa. Ha ancora le sembianze di bambina, il pudore di una ragazzina innocente. Come le altre ragazzine, anche Maryam è scappata dalla povertà, dalla mancanza di istruzione, dall’assenza di prospettive. «Talvolta a Benin City arrivavano donne nigeriane», dice. «Tornavano dalle loro case in Europa, bellissime, piene di soldi, e compravano case per i loro familiari. Queste donne sono l’invidia dei villaggi, quando arrivano raccontando della vita qui, in Europa, molte famiglie spingono le proprie figlie a partire, anche se sanno che il viaggio è pericoloso. Anche mia madre mi ha spinto a partire dopo aver parlato con una madam: mi ha detto vai Maryam, lavora e torna come queste donne, con tanti soldi e aiutaci a vivere meglio».

La sera prima di partire la “madam” nigeriana ha sottoposto Maryam e altre bambine a un antico rito vodoo, il ju-ju: «Diceva che avrebbe protetto noi ragazzine dagli spiriti del male. Ci hanno tolto una ciocca di capelli, dei peli dal pube e un pezzo di unghia. E ci hanno solo ripetuto: se non onorerete i vostri debiti, morirete». L’uomo che l’ha portata in Italia l’ha protetta per tutto il viaggio, le diceva che doveva arrivare in ottime condizioni, che la stava aspettando un uomo molto importante che l’avrebbe fatta lavorare.

L’uomo che la aspettava in Italia era in contatto con la “madam” e aveva pagato la sua verginità.
Sono sempre di più i minori non accompagnati che finiscono in strada, secondo l’Iom, che lancia un allarme sull’età sempre più bassa delle ragazzine costrette a prostituirsi, e anche per gli operatori delle unità di strada della Comunità Giovanni XIII, secondo cui metà delle ragazze soccorse negli ultimi mesi sono minorenni. Maryam ricorda che quando la madre l’ha salutata sulla porta di casa a Benin City le ha detto: «Il corpo è un luogo sacro». Oggi Maryam non riesce più a guardarsi allo specchio.

© Riproduzione riservata 11 settembre 2017